CADAVERI IN CERCA D’AUTORE
IN CARCERE SEI SUICIDI IN UN MESE MA TACERE È IL NUOVO COMANDAMENTO
Partendo
dall’idea che di galera non si debba parlare, dei morti ammazzati dentro una
cella neppure, del suo sovraffollamento meno ancora, volendo così significare che l’ingiustizia è stata
finalmente sanata, mi sovviene un pensiero che rafforza drammaticamente quel
che è già risaputo da tempo: più la galera sarà ridotta a un lazzaretto
disidratato, più chi poco conosce della prigione risulterà contento.
Chiaramente
si tratta di una disattenzione che renderà il cittadino ulteriormente
allarmato, ovvero alla ricerca di sempre nuove sanzioni restrittive che però
non risolveranno i problemi che affliggono la società di cui è parte.
Una sorta di autoipnosi
collettiva, perché è provato dalla recidiva inequivocabile che le carceri punitive
non consentono alcuna rieducazione, alimentando ben poca “sicurezza” per quei
cittadini che invece auspicano una giustizia giusta.
Sul
carcere è franato un silenzio spesso come la pece, frutto di un’architettura
sofisticata al punto da non obbligare ad alcuna indignazione, neanche per le patologie a doppia diagnosi che
s’espandono nelle celle di una prigione.
C’è
silenzio feroce della notizia, tramortita dall’estate in dirittura conclusiva,
contiene un messaggio sottotraccia, non bisogna parlarne troppo, occorre
evitare strilli e urla, sono “eventi critici” che dalla notte dei tempi
appartengono al novero delle “insindacabilità” carcerarie.
Sei
detenuti suicidi, ognuno ospite in un Istituto diverso, ciascuno strozzato in
gola, con le orbite esplose nei polmoni.
Sei
persone all’ammasso, corpi denudati, cadaveri in cerca d’autore.
Sei
residenti in quella sorta di terra di nessuno, dove non si vuole guardare, sei
interrogativi rapinati brutalmente di soggetto e complemento oggetto, sei
uomini azzerati della propria esistenza nello spazio di un mese o giù di lì.
Manca
il personale, non ci sono mezzi
necessari a tutelare e garantire se non una parvenza vita, una possibile
sopravvivenza.
In
questi frangenti le colpe non sono mai di nessuno, ovvero sono “semplicisticamente”
riconducibili alla fragilità umana, genuflessa al peso della colpa e del
rimorso incombente.
Episodi
licenziati sbrigativamente dall’urto e nel fastidio della piaga endemica
dell’Amministrazione Penitenziaria, il sovraffollamento, come unica condizione
d’irrappresentabilità della pena da scontare.
Non
c’è da farla tanto lunga, tante e troppe persone per bene muoiono ingiustamente
nel consorzio sociale libero!
Non
fa una grinza, ma forse c’è da tener in debita considerazione che queste dipartite
appartengono anch’esse a cittadini detenuti, sì, privati della libertà, ma a
norma di legge con le mani e con i piedi interamente affidati allo Stato che li
detiene, che però non dovrebbe spogliarli della propria dignità.
C’è
arrendevolezza di comodo al male minore, rispetto alla condizione di
inaccettabilità cui è costretto il carcere.
Sei
detenuti di ogni età, terra di origine, si sono “volutamente” estinti in
altrettante regioni della penisola, dunque non è la solita letteratura di parte
che riguarda una ben definita Cayenna, quel famoso inferno, quella unica e
malcelata dependance del diavolo.
Sei
esseri umani hanno preferito la ferita scarnificata al collo, il cappio stretto
alla gola, se ne sono andati in sei nell’arco di un mese, scacco alla sofferenza,
al dolore, all’abbandono e alla follia che imperversa in ogni disperazione
solitudinarizzata da una politica scardinata dei propri ideali.
Sei
morti ammazzati nello scorrere di qualche settimana non sono una
miserabile materia di rimbalzo, tacerne
la gravità sottende latitanza di una dignità da rispettare per norma
costituente, se non per un diritto e un dovere di umanità che riguarda l’intera
collettività.
Forse
è giunto il tempo di mettere mano davvero alla Riforma Penitenziaria, quanto
meno per riconsegnare al carcere il suo scopo e la sua utilità.
Vincenzo Andraous
Vincenzo Andraous